Antonella Grassigli, CEO e Co-founder Doorway Società Benefit, Angel Investor, IAG Partner e co-founder di Angels4Women. Dottore commercialista e revisore legale. A fine 2021 è stata nominata, dal Club degli Investitori, Business Angel dell’Anno.
Da investitrice, quanto è realmente vantaggioso fare startup in Italia e perché?
Premetto che io da business angel e da investitrice ritengo che l’investimento in startup e quindi in aziende innovative sia, oggi, il principale motore economico del Paese anche se noi in Italia siamo ancora molto indietro su molti aspetti. In tutti i paesi più evoluti la tecnologia e i risultati di crescita ottenuti dal sostegno all’ecosistema di startup, interno e non, sono stati esponenziali in casi come Israele, gli Stati Uniti o il Regno Unito. Dal punto di vista della politica strategica questo tipo di investimenti devono esserci. Il problema è che in Italia c’è una grandissima burocrazia e quindi fare impresa non è semplice perché a differenza di altri paesi anche solo costituire dimostra che non siamo propriamente un paese entrepreneur friendly. Per questo noi imprenditori, e lo dico in maniera consapevole dato che io sono anche un’imprenditrice, siamo così bravi a esportare il frutto del nostro lavoro, perché abbiamo così tante difficoltà in patria che quando poi in qualche modo usciamo vediamo la nostra resilienza premiata. Ciononostante, tutto questo sta pian piano migliorando: noi siamo stati i primi, in Italia, a creare una legislazione specifica per le startup e nel corso del tempo, in questi anni, anche il pubblico ha contribuito con centri di ricerca, ha dotato le università di team dedicati, Cassa Depositi e Prestiti negli ultimi anni ha investito tanto nel sostegno delle aziende innovative. Quindi è stato comunque fatto qualcosa, perché se è vero che noi partiamo con un divario importante rispetto ad altri paesi innovativi, lo stiamo comunque pian piano colmando. Noi in Italia abbiamo dei centri di ricerca di eccellenza, per esempio a Torino e Milano con i due poli politecnici, e dei distretti industriali su cui fare open innovation molto importanti, come quelli dell’automotive in Piemonte e in Emilia-Romagna. Da queste eccellenze nascono anche delle risorse umane, delle persone, che hanno delle competenze molto alte sulle quali deve essere innestata una scuola di imprenditorialità che è quella che forse a noi manca di più, perché un conto è fare ricerca e un conto è fare impresa a partire dai risultati della ricerca. Dal lato dell’investitore sostenere le imprese dà un duplice vantaggio: da un lato economico, tendenzialmente, gli investimenti in startup o in venture capital sono quelli che hanno le più alte possibilità di ritorno economico e poi da un punto di vista più generale e sistemico, comunque, l’investimento in venture capital è ciò che può far crescere un Paese.
Di recente c’è stato un acceso dibattito sul coinvolgimento o meno della figura del notaio nella costituzione delle startup, cercando di promuovere la costituzione online che però è stata infine preclusa da una sentenza che ha negato la possibilità di accedere a questo sistema semplificato.
Questo è uno degli esempi del fatto che la semplificazione dei processi da noi è ancora molto osteggiata. Sconfiggere lo status quo, andare contro il vantaggio di pochi per cercare una liberalizzazione del mercato è sempre qualcosa in cui noi facciamo fatica. L’esempio dei notai è stato molto sintomatico. Hanno digitalizzato il processo alla fine ma la costituzione dovrà comunque avvenire attraverso una piattaforma non aperta al mercato ma appaltata a un ordine professionale. È chiaro che la tutela della legalità sia un’altra cosa, però in questo modo abbiamo visto che si potevano trovare altri player che avrebbe segnato un cambio di passo e un’apertura. Ci sono tante piccole cose che unite insieme fanno sì che una startup di nuova costituzione non abbia proprio vita facile. Fare impresa in questo modo è già di per sé difficile, perché in tanti casi si lavora su dei modelli di business che ancora non ci sono, li si va a creare da zero e quindi si sta già correndo il rischio di seguire un’idea che può non essere giusta e su cui si deve ancora superare la prova del mercato. Se a tutto questo si va ad aggiungere un ostacolo burocratico di questo tipo è chiaro che si va a generare un appesantimento doppio. Oltretutto noi in Italia abbiamo un problema di fundraising, non abbiamo un accesso facile ai fondi e gli imprenditori e le imprenditrici innovativi devono affrontare processi lunghi e complessi per convincere gli investitori. Da noi non è facile avere accesso ai capitali, a differenza di altri paesi, e senza il fundraising, banalmente non si cresce.
Ma si tratta più di un problema istituzionale/legislativo o ci sono anche delle corporazioni, costituite da grossi player già radicati nel mercato da decenni, che tendono a essere protettive verso ciò che hanno creato e ad alzare delle barriere all’ingresso sul mercato?
Dal punto di vista legislativo è stato fatto molto per cui non penso che sia un problema istituzionale, anzi ci sono tante agevolazioni. Secondo me è più un problema di sistema, il venture capital e l’imprenditoria dovrebbero essere più sostenute anche dal punto di vista politico. Ci sono una serie di imprenditori illuminati, come ad esempio quelli che fanno parte del Club degli Investitori, che hanno capito che è importante investire ma siamo ancora delle minoranze, non siamo ancora mainstream. Non dovrebbe essere considerato così naïf fare quello che facciamo noi. Se si parla con grandi investitori istituzionali o con i fondi pensione, molti hanno un atteggiamento verso il venture capital molto prevenuto. Manca una cultura dell’investimento a rischio, siamo un po’ figli di concetti sorpassati, di chi investiva in BOT per avere dei rendimenti sicuri a tasso fisso tutelando sempre il capitale. Per far crescere il capitale si deve investire anche a rischio, perché è quello che fa crescere il portafoglio ma fa anche crescere un Paese, le attività che salvaguardano il capitale non fanno crescere l’indotto. Qualcosa sta cambiando, siamo in un periodo in cui non ci sono tanti investimenti che salvaguardano il capitale in cui ci sono a volte anche tassi negativi e quindi, forse, questo è il momento buono per far capire che bisogna investire nel venture capital e rivedere la propria propensione al rischio. Questo cambio culturale è l’unico modo per avere dei rendimenti e per avere una crescita del portafoglio e anche per dare maggiore fiducia a realtà che possono sembrare un azzardo e aiutarle a crescere e instradarsi.
Quindi non serve solo formazione imprenditoriale nella “fascia startupper” ma anche una nuova educazione finanziaria, più moderna, verso chi ha un’anzianità professionale più avanzata e dei bias molto radicati…
Assolutamente sì, i Millennials sono già abituati a questi discorsi e ad adottare questo punto di vista. Quando parlo con i consulenti finanziari o con i private bankers percepisco che ormai si sa che bisogna investire in private asset. Quando ci sarà un cambio generazionale anche nella gestione dei patrimoni sicuramente chi farà capire alla clientela di avere questo approccio e avrà nel proprio portafoglio anche investimenti in startup sicuramente avrà maggiore appeal nei confronti di un mercato più giovane. Dal mio punto di vista vedo che comunque le cose stanno cambiando, piano ma stanno cambiando. Fino a qualche anno fa parlando di venture capital sembrava di citare una nicchia davvero ristretta; invece, solo nel 2021 sono nati moltissimi fondi di VC. Questo fa capire che l’interesse c’è ma per un vero cambio di passo bisogna unire e rodare il meccanismo che mette in contatto la spinta del pubblico, il coinvolgimento del risparmio privato e le grandi corporate che fanno open innovation. Se tutto questo inizia davvero a funzionare come un ecosistema sicuramente cresciamo.
La ricerca annuale del Club degli Investitori ha evidenziato che Torino, nel panorama nazionale, ha molto potenziale, in parte ancora inespresso, per affermarsi come polo innovativo d’eccellenza. Cosa manca ancora alla “formula magica” per far sbocciare definitivamente questo ecosistema?
Dal mio punto di vista di non torinese quello che percepisco io è la necessità di legarsi maggiormente a un concetto di ecosistema nazionale prima che locale. Torino è sicuramente un polo attrattivo, ha dei grandissimi imprenditori e una ricchezza media piuttosto alta. Quello che dovrebbe essere più percepibile all’esterno è una sorta di condivisione anche con altri territori e altre regioni, un’apertura nei confronti della condivisione di quello che è il patrimonio di conoscenze per non essere percepiti come un sistema chiuso e troppo autoreferenziale. A me piacerebbe parlare del Club, parlare del Politecnico ma in termini nazionali e non solo torinesi. La svolta da cercare è incubare tutto questo fermento e attenzione che c’è verso la città ma per farla diventare un hub nazionale e non percepito come polo di attrazione che, come una calamita, poi trattiene ciò che attrae. Io sono molto fiduciosa perché comunque sta avvenendo un’apertura che anche solo fino a qualche anno fa non c’era. Torino non è “solo Torino” ma è qualcosa che fa parte di un più grande ecosistema dove ci sono tante altre città e regioni. Bisogna lavorare a coltivare questa visione più comune basata sull’apertura per far sì che la città sia sì uno snodo da cui passare per fare innovazione ma anche capace di irradiare verso l’esterno i risultati degli sforzi fatti e il valore creato. In questo modo si può essere sia un punto di riferimento che un esempio da seguire. Torino ha tanti pregi su cui fare leva per aprirsi come la presenza dei capitali, delle aziende, delle competenze, delle risorse umane e in più un’ottima posizione logistica in mezzo a un crocevia interessante che collega l’Italia con l’estero e tutte queste cose sono cruciali per poter essere percepita come un luogo di scambio e condivisione di competenze e crescita. L’innovazione deve essere diffusa anche perché parliamo di mercati globali, delle merci e finanziari, e diciamo alle startup di aprirsi e internazionalizzarsi e quindi dobbiamo tenere gli ecosistemi il più possibile aperti verso l’esterno e non autoriferiti e arroccati a guardare solo al proprio interno.
Anche la narrazione giornalistica dell’innovazione, che crea sempre in qualche modo una classifica in cui vengono messi a confronto i risultati di Torino, Milano, Roma, Napoli o altre città, alimenta un campanilismo e una sensazione di continua rincorsa che forse non fa bene all’innovazione. Potrebbe servire sforzarsi di raccontare di più un dato aggregato, che premia gli sforzi fatti da ogni città per contribuire a un risultato collettivo e condiviso…
L’innovazione per sua natura deve essere condivisa, perché porti dei reali benefici. Noi stiamo già parlando di Italia, che a suo modo è un microsistema interno a un sistema globale. Andare ancora a restringere di più l’attenzione su campo di azione e di impatto ancora più nel dettaglio, guardando alle singole città, è un controsenso. Io sono stata al Web Summit a Lisbona, lì veramente ho avuto la sensazione di avere la visione di un tutto fatto di una condivisione di tecnologie e di conoscenze tra le persone facenti parte di un network aperto. Non serve un’etichetta geografica di provenienza da una data città o nazione ma per innovare bisogna considerarsi parte di un mondo globale, condividere e divulgare il più possibile i traguardi raggiunti.
Qual è il modo e il momento migliore per una startup per presentarsi per la prima volta a un investitore?
Il momento, per la mia esperienza, è quando si ha un MVP pronto e una minima traction di mercato per far capire all’investitore che la soluzione che si propone è validata dal mercato almeno da degli early adopters. Poi dipende anche da chi è l’investitore a cui ci si rivolge e quindi prima di tutto una startup deve capire che investitore ha davanti. Se ad esempio si ha di fronte un business angel che è esperto e che quindi riesce a capire in che fase di sviluppo si trova la startup e che traction abbia, allora a quel punto ci investe mentre senza traction convincente non investirebbe mai. Quindi il momento e il tipo di investitore sono due cose che dipendono l’una dall’altra: in fase seed e in fase early stage occorre dare una traction di mercato per far capire dove si voglia andare, con quali risorse e che, come mercato di riferimento, non si sia guardato solo all’Italia ma quantomeno all’Europa. E poi è importante presentare un team credibile, alla fine in fase seed o early stage l’investitore sta investendo sulle persone cioè sul fatto che il gruppo di lavoro sia in grado di portare a terra il progetto, che sia in grado di cambiare direzione facendo un pivot se necessario, che abbia la giusta ambizione e che conosca la direzione in cui vuole andare sapendo il modo in cui andarci. Ci si concentra, in queste fasi, molto sul valutare le prospettive dell’execution. Il mio consiglio quindi è conoscere l’investitore, far capire di avere le idee chiare e di avere il team e le risorse giuste per realizzarle.
Qual è il settore innovativo che potrebbe crescere più velocemente nei prossimi cinque anni in Italia?
In Italia sicuramente il settore fintech avrà una spinta mostruosa, perché su questo i nostri istituti finanziari sono ancora abbastanza indietro quindi c’è bisogno e ricerca di servizi finanziari innovativi, e quindi di conseguenza tutto quello che abiliterà le tecnologie blockchain. Anche tutto il B2B è molto promettente, quindi tutto ciò che concerne la digitalizzazione dei servizi alle imprese: negli anni scorsi tutti abbiamo investito sul B2C, sui marketplace e su tutto ciò che era rivolto al consumatore, adesso la tendenza è verso la transizione digitale delle imprese, di qualunque settore. In generale, a prescindere dai settori, questo per il nostro Paese è il momento giusto per una bella crescita, bisogna avere fiducia perché con le occasioni che abbiamo adesso con il PNRR e con tutte le risorse che stanno arrivando da Cassa Depositi e Prestiti è il momento giusto per investire in innovazione. Sono contenta che tanti, quasi tutti, sembra che stiano capendo che il momento è proprio adesso. Per le startup e per chi voglia mettersi in questo mercato, per chi ha un’idea innovativa e voglia fare ricerca questo è il momento giusto per tirare fuori il coraggio e buttarsi.