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ToTeM incontra… Plug and Play

Per il nuovo appuntamento della serie di interviste di ToTeM alle realtà che investono in innovazione abbiamo incontrato Leonardo Rocchetti, VC Investor di Plug and Play.

Plug and Play è uno dei più grandi early-stage VC al mondo con oltre 200 investimenti all’anno, opera a livello mondiale investendo in tutti i settori dell’economia in founding team visionari e capaci di cambiare la realtà con un impatto positivo a livello globale. Inoltre, Plug and Play è la più grande piattaforma di innovazione al mondo con oltre 40.000 startup con cui le grandi aziende collaborano in progetti di open innovation in oltre 35 città al mondo. 

Leonardo Rocchetti

VC Investor

Fa parte dell’investment team di Plug and Play Ventures e si occupa di progetti di Open Innovation con le più grandi corporation nel settore delle Smart Cities (Mobility, Energy, IoT & Real Estate).  Laureato in Ingegneria Gestionale a Torino con un MBA al Collège des Ingénieurs è appassionato di innovazione, economia e politica. Grande amante del windsurf e viaggi avventurosi è alla ricerca di imprenditori visionari che risolvano i problemi chiave del nostro pianeta e società. 

Plug and Play opera a livello mondiale, quali sono le differenze principali tra l’ecosistema dell’innovazione in Italia e il panorama mondiale?

Ci sono molte differenze di varie tipologie. Innanzitutto, noi italiani siamo un po’ patriottici anche per quanto riguarda l’innovazione e vorremmo vedere il nostro paese un po’ come nel secondo dopoguerra anche nel mondo delle startup, però purtroppo da questo punto di vista l’italia non si trova nelle prime posizioni. Ci sono tantissimi italiani che sono andati in giro per il mondo a lanciare le loro startup, come ad esempio a Londra, dove è stimato che ci siano circa 100,000 italiani che stanno cercando di lanciare o che hanno lanciato la propria impresa. Nel corso degli ultimi 10 anni c’è stato una grande rincorsa a quelli che sono gli ecosistemi di innovazione globali da parte del nostro paese. Ciò rischia però di essere vanificato da quello che è stato l’impatto del covid: c’è stato una caduta del PIL molto importante che può avere effetti permanenti sull’ecosistema dell’innovazione in generale.

Negli ultimi 10 anni il governo ha fatto diverse cose per migliorare la situazione, come l’Italian Startup Act, che effettivamente ha creato dei presupposti, attraverso un piano di incentivi, per la creazione di startup innovative, tanto che adesso vantiamo circa 11,000 startup. Ultimamente, l’investimento da parte di CDP Venture Capital di 1 mld all’interno del sistema di innovazione sicuramente porterà altri vantaggi. Nonostante ciò, a livello di supporto governativo siamo distanti da altre realtà europee, come ad esempio la Francia che ha lanciato un piano di 4 mld per il supporto alle startup innovative.

Dal punto di vista corporate, molte realtà hanno sviluppato diversi progetti, ad esempio Microsoft che ha lanciato un piano di investimento da 1.5 mld nel nostro paese, NTT Data in Calabria, o Apple in Campania con l’Academy. É chiaro che questo aiuterà ad alimentare il sistema di innovazione.

Al momento ci ritroviamo con circa 11.000 startup in Italia, con la Lombardia che guida tutto il carro con più di 3.000 startup e il Lazio che segue con 1.300. Chi vive il mondo dell’innovazione in Italia sa che questo numero è un po’ falsato dalla loro definizione legislativa, poichè si fa riferimento a componenti innovative che però non vanno a raggiungere gli standard internazionali per quello che noi definiamo startup. Magari vi si trovano delle imprese innovative molto competenti ma non quello che uno si aspetta di vedere dal punto di vista della startup. 

La situazione negli ultimi 10 anni è migliorata e il nostro ecosistema sta crescendo. Il 2021 ci porta forse ad un punto di svolta all’interno dell’ecosistema internazionale, con all’incirca 636 milioni di investimento al 1 giugno, superando già quelli che erano i dati del 2020 e sostanzialmente con molti meno deal, all’incirca 111. Questo ci da un segnale della magnitudine della crescita del nostro ecosistema e anche della sua resilienza alla situazione del COVID-19. In generale, anche da un punto di vista della taglia dell’investimento, si vede che i deal sono migliorati, la mediana dell’investimento è salita, sfiorando il milione, e ciò ci fa sperare che le nostre realtà stiano crescendo, stiano andando a stage sempre più avanzati e possano poi riuscire a valicare quelli che sono i confini nazionali. Questo è sempre stato un problema del nostro ecosistema, che storicamente ha sempre avuto paura di andare fuori, di essere ambiziosi e portare le nostre capacità all’estero, però effettivamente ci si sta avvicinando a un punto di svolta anche da questo punto di vista.

Paragonato con gli ecosistemi europei ed americani, la situazione italiana è ancora distante. In UK nel 2020 il totale degli investimenti ha raggiunto i 13 miliardi, di cui 9 miliardi soltanto a Londra, che è ben distante dall’ecosistema di punta italiano che è Milano con 37 milioni. La Germania e la Francia inseguono con la prima che supera comunque i 6 mld di fondi investiti e una crescita annua del 10% e la Francia che si avvicina e cresce velocemente con un 25%. L’Italia si comporta bene dal punto di vista della crescita con un +33% annuo, dal 2019 al 2020, e questo ci da un segnale di speranza e di positività poiché, nonostante non siamo le punte di diamante, in quanto c’è l’Irlanda con un 73% in aumento e l’Austria con un 60%, i numeri sono decisamente positivi. 

Il problema è che all’interno del nostro ecosistema la magnitudine della startup pesa ad un livello molto piccolo rispetto all’economia in generale; ii fondi raccolti rispetto al PIL nazionale sono lo 0,1%, rispetto ad ecosistemi più maturi come gli USA dove sono 3,5% e Cina dove sono 1,5% o anche la media europea che è sullo 0,5%. Questo ci dimostra ancora come il nostro ecosistema faccia fatica a raggiungere i livelli internazionali. In particolare il confronto più sorprendente è quello con la Silicon Valley: l’Europa ha investito in tutta la sua storia fino al 2019 125 mld ovvero lo 0,53% del PIL europeo, mentre in Silicon Valley l’investimento è stato di 304 mld, rappresentante il 60% del PIL della California. L’Europa ha in totale circa 700 scaleup contro la Silicon Valley che da sola ne ha 6.500.

In conclusione, i segnali sono comunque molto positivi e se riuscissimo a trattenere in Italia i talenti e le imprese, come la recente notizia di Depop, possiamo arrivare a giocarci il nostro gioco. 

L’interesse mondiale per le startup è un fenomeno che può seguire gli andamenti della moda, o è qualcosa che si consoliderà sempre di più nel futuro? In italia, negli ultimi anni le startup sono passate da mito californiano a foga del momento, questo tipo di approccio è qualcosa che durerà o è solo una bolla momentanea di interesse?

Secondo me, l’era delle startup non è finita, ne avremo ancora per un po’ però si sta trasformando. 

L’interesse per le startup è innanzitutto di politica pubblica, ovvero i governi pongono grande attenzione a questa economia, che si stima abbia valore 3 trilioni di dollari globalmente. Prima di tutto, i governi fanno particolare attenzione ai numeri di posti di lavoro e ci sono diverse ragioni collegate per puntare sulla startup economy, elencate da un report di Startup Genome: 

  • C’è un report molto istruttivo sul numero di net job creation da parte delle imprese aventi da 0 a 5 dipendenti rispetto a quelle più grandi. Effettivamente il numero di posti di lavoro creato nelle imprese più piccole è più alto rispetto a quello delle corporate tradizionali. Si pensa che nel dicembre 2019 la crescita annua di posti di lavoro creati con le startup sfiori il 10%, rispetto a quella delle corporate che è attorno all’1%. Le startup sono quindi i driver principali di creazione dei posti di lavoro e questo è un dato importante a cui i governi fanno molta attenzione. 
  • I lavori relativi alle startup costano molto meno da salvare dal punto di vista di policy pubblica. 
  • Creare un posto di lavoro relativo all’high-tech comporta la creazione di altri 5 posti di lavoro all’interno dell’economia.
  • Dal 2011 gli unici posti di lavoro che sono cresciuti a seguito della crisi finanziaria, sono stati quelli relativi a computer science e high-tech

Per queste ragioni i governi stanno ponendo grande attenzione nell’alimentare questo ecosistema.

Per quanto riguarda le motivazioni del perchè si stia trasformando, innanzitutto noi abbiamo vissuto tre ere: la prima è stata l’era del web fino al 2006 in cui tutti potevano lanciare la propria impresa facilmente attraverso un computer e una pagina web. La seconda è stata l’era dello smartphone, in cui i servizi venivano creati e forniti tramite applicazioni per i dispositivi che troviamo nelle nostre tasche. Adesso durante la terza era, invece, fare startup è molto più complicato perchè le conoscenze richieste sono molto più complesse in quanto i sistemi sono più difficili da codificare e prevedono l’interazione di un maggiore numero di stakeholders. Per esempio, per fare intelligenza artificiale si ha bisogno di un alto livello di specializzazione.

Un altro punto di vista molto interessante è quello dei tassi di interesse: negli ultimi anni le organizzazioni finanziarie si stanno spostando alla ricerca di rendimenti, perchè sostanzialmente i tassi di interesse sono scesi e quindi ci si è avvicinati al venture capital per andare alla ricerca di nuovi tipi di investimento più redditizi. Questo ha portato dall’altra parte a una moltiplicazione dei progetti imprenditoriali ma senza una conversione effettiva in startup di successo.

Secondo me, il mondo di domani appartiene alla tecnologia e noi come persone e come venture capitalist dobbiamo pensare all’impatto che queste tecnologie avranno nel futuro. Per quanto riguarda il se questa cosa continuerà nel futuro, la domanda diventa, visto che tutti si sono avvicinati al mondo del venture capital e gli investimenti sono cresciuti infinitamente, avranno queste imprese la capacità di dare il ritorno sull’investimento sperato? Secondo me, alcune valutazioni attuali sono molto grandi e ci stiamo chiedendo tutti quale sarà la fine che farà questo fenomeno.

Esiste un fil rouge che unisce tutti i progetti in cui avete deciso di investire e quali sono gli elementi che maggiormente Plug and Play valuta quando decide di investire su una startup? 

Innanzitutto, noi siamo un early stage investor che copre dal pre-seed al series A generalmente e diciamo che il nostro fil rouge è dato dal fatto che cerchiamo investimenti che possano essere strategici. Ci proponiamo in generale come investitore strategico, dovuto al fatto che abbiamo più di 35 uffici al mondo e grandi relazioni con imprese Fortune 500. Il nostro network di aziende fa sì che possiamo fornire questo valore alle aziende del nostro portfolio e all’interno della nostra innovation platform, permettendo di far collaborare le nostre startup direttamente con queste grandi imprese, con una relazione privilegiata.

Dal punto di vista di ciò che ricerchiamo, la nostra è una ricerca maniacale dal punto di vista del team, che deve essere visionario, con capacità di comunicazione, che capisca che l’idea da sola non vale niente ma che l’esecuzione è tutto e che abbia la voglia di portare la propria soluzione ad avere un impatto sulla società, con una forte motivazione. Questo è quello che noi guardiamo prima di tutto.

Che tipo di rapporto instaurate con le realtà con cui investite?

Le aziende in portafoglio sono aziende che a tutti gli effetti fanno parte della Plug and Play family, e il rapporto che instauriamo è un rapporto in cui cerchiamo di aiutarli e supportarli attraverso il nostro ecosistema, coinvolgendoli nei nostri programmi e nelle relazioni con i nostri corporate partner. Poi, essendo Plug and Play un VC che ha reti un po’ ovunque nel mondo e che investe annualmente in circa 150 startup, è in grado di offrire supporto anche dal punto di vista del fundraising poiché ha sviluppato una rete di relazioni anche con altri venture capital, che gli permette di mettere in contatto le varie startup con l’investitore più giusto per loro in quel momento. 

Qual è il modo migliore per una startup per entrare in contatto con voi?

Io credo che il valore di Plug and Play sia che dentro l’azienda ci siano molte persone molto disponibili, e quindi a noi si può arrivare tranquillamente. Ci potete scrivere su LinkedIn, o tra connessioni e eventi non bisogna aver paura di presentarsi e presentare la propria idea. Io sono il primo che molto spesso aspetta che alcune startup che mi sono piaciute vadano in fase di fundraising, che magari ho conosciuto precedentemente quando ancora non erano ancora pronte per ricevere fondi.

Qual è il momento giusto nella vita della startup per presentarsi a voi?

Allora noi investiamo anche in startup che sono molto early stage, in cui si ha solo un prodotto che è appena uscito dalla fase embrionale, che inizia a far vedere i primi segni di traction. È chiaro che più si va indietro dal punto di vista di maturazione, quindi più si alza il rischio di mercato e più chiaramente la scommessa è sul founder. Generalmente quello che noi ricerchiamo quando invece sono in fasi un po’ più avanzate sono segni di traction. Vedendo i segni di traction si vede che il prodotto funziona, e quindi il rischio di mercato si abbassa e l’investitore è più propenso. 

Qual è il tuo rapporto personale con la città di Torino e come pensi che la città possa evolvere in futuro?

Nel percorso della mia vita ho passato diversi anni a Torino, ho fatto i miei studi lì e credo che mi abbia lasciato un sacco di segni, e quindi per me è una città molto speciale e credo sempre nell’ecosistema torinese dell’innovazione.

Fino al 2019 c’è stata una crescita dell’ecosistema torinese, poi il Covid ha colpito molto pesantemente in termini di finanziamenti e di numero di deals. In generale il piemonte e torino posso puntare su alcuni grossi pilastri. Il primo è la manifattura, l’industry 4.0 in cui il Piemonte guida insieme all’Emilia-Romagna per il numero di dispositivi 4.0 all’interno delle proprie aziende. Oltretutto perchè all’interno dell’ecosistema torinese ci sono dei punti di riferimento importanti dal punto di vista dei talenti, come il Politecnico. In più abbiamo la green chemistry, in cui il Piemonte conta più dipendenti e più imprese rispetto alle altre regioni italiane. 

In generale Torino è riuscita nel corso del tempo a trasformarsi da quello che era l’hub della manifattura italiana a quella che è una città più moderna e più internazionale, e ciò si vede anche dall’indice del livello di smart city di Torino, che è subito dopo Trento, e in generale gode anche di una rete infrastrutturale di telecomunicazione e sensoristica che effettivamente è avanzata rispetto al panorama italiano. Ci sono stati molti processi di trasformazione: c’è Digital Innovation Hub che è riuscito a creare 960 imprese, poi l’arrivo di Techstars che aiuta l’attrazione di capitali e startup innovative. In generale, la città sta facendo dei grossi passi avanti. È una notizia recente che l’Innovation Center di Intesa Sanpaolo abbia creato un accordo con Startup Genome per far si che l’ecosistema di Torino possa crescere. 

Un problema serio per Torino è il livello di unemployment, soprattutto per quanto riguarda le persone con alte competenze, e il mondo delle startup e dell’innovazione potrebbe portare a un nuovo rilancio della città. Poi, un punto di vista personale, Torino dovrebbe avere un po’ più coraggio nel cercare di attirare a sé persone capaci, talentuose e curiose, facendo sì di diventare un posto per giovani, dove ci si possano scambiare idee. Questo mix può fare nascere nuovamente Torino come in passato.

Autore

Renato Pannella
Marketing and Public Relations

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