Djungle nasce nel 2017 con l’obiettivo di portare innovazione nel settore retail ripensando la customer loyalty e introducendo gamification e big data, Djungle ha raggiunto rapidamente importanti traguardi e ha lavorato con brand noti come Flying Tiger di cui è ancora partner. L’evoluzione è rapida e continua e Djungle si impone per la sua esperienza e originalità nel creare customer engagement. Passati in 3 anni da 0€ a 1mln di fatturato, in questi mesi è in fase di lancio un nuovo piano industriale che la trasformerà in “Djungle Studio”, uno start-up engine dedicato alla discovery e validation di opportunità di business su community b2c.
Giulietta Testa
CEO & Co-founder
Laureata in giornalismo e diplomata in violino, negli anni si occupa di comunicazione, consulenza aziendale e gestione dello sviluppo software. Appassionata di tecnologia e gamification, nel 2017 fonda Djungle, una tech company dedicata al customer engagement di cui è la CEO.
Alessandro Nasi
Co-founder
Molteplici le esperienze imprenditoriali che gli hanno permesso di conoscere il mondo corporate, quello della pubblica amministrazione e quello della startup. Oggi come co-founder di Djungle, vuole fare la differenza nel digitale in Italia e proporre un nuovo modo di fare innovazione.
Al centro delle attività di Djungle c’è spesso la gamification, riuscite ad applicare questo concetto anche a lavoro? Pensate che il divertimento sia un aspetto importante del contesto lavorativo?
Alessandro: Assolutamente sì, per noi la gamification è una delle cose più importanti. Nel team, tenere un livello di divertimento alto è una parte fondante di Djungle, il divertimento permette di stimolare meglio la creatività. Per poter sviluppare progetti davvero innovativi e che puntano ad essere disruptive, c’è bisogno di poter fruire della creatività in modo costante e il divertimento è un’ottima fonte per far nascere nuove idee.
Giulietta: Nell’ultimo periodo il nostro team è cresciuto molto e per mantenere lo spirito del gruppo abbiamo istituito una seria rituali, come il DjungleDay o il Planning, o attività come il Delegation Game, e una serie di processi e di momenti di confronto con il team per confrontarci su elementi dell’azienda attraverso attività divertenti capaci di creare momenti di condivisione e rinforzare le singole connessioni tra i membri. In questo periodo fortemente influenzato dallo smartworking, abbiamo piacevolmente notato che il gruppo è comunque molto unito e tutti si ritrovano appieno nello spirito di Djungle.
In quest’anno complesso siete riusciti a crescere molto dal punto di vista del team, qual è l’elemento che contraddistingue un membro di Djungle?
Giulietta: Prima del lockdown eravamo in 7, oggi siamo in 18 a lavorare full-time in Djungle. Oltre alle specifiche skills, noi cerchiamo sempre la componente Djungle, ossia quella caratteristica personale non chiaramente definita che però viene collettivamente riconosciuta in maniera naturale. “Lei/Lui è Djungle” è l’espressione che ci viene spontanea quando identifichiamo una persona che rispecchia appieno lo spirito dell’azienda.
Alessandro: Per spiegare il fattore Djungle, userei una similitudine con il mondo della musica. Molte band nel corso degli anni hanno cambiato radicalmente il loro stile e il modo di fare musica, eppure si riesce sempre a distinguere chi è Rock e continuerà ad esserlo. È difficile da spiegare, ma è immediato da capire. Capire chi è Djungle e chi no, per noi è paragonabile a questo tipo di sensazione.
Chi è più Djungle tra voi due?
Alessandro: Siamo tutti Djungle!
Giulietta: Djungle è l’unione di ciascuno, è composta dall’insieme di tutte le diversità e le energie che si fondono insieme.
Come Djungle, vi sentite di più una startup o una software house?
Alessandro: Noi sentiamo di essere molto di più una startup. La componente di sviluppo software è un asset che ci permette di creare prodotti digitali, ma non è il nostro scopo ultimo. La nostra mission è sviluppare dei prodotti che abbiano un impatto positivo sui nostri clienti e utenti finali per cambiargli il modo di interagire con la tecnologia.
Giulietta: Il concetto di software house è molto legato al lavoro su commessa esterna, noi invece abbiamo un’ottica principalmente rivolta allo sviluppo di progetti interni. Abbiamo dei clienti e delle partnership per vari progetti, ma la nostra ottica principale rimane lo sviluppo di prodotti interni rivolti all’utente finale.
Spesso si mette a confronto il modello con le startup con quello delle aziende definite tradizionali, questi due mondi possono entrare in contatto per creare delle sinergie reciproche?
Alessandro: Questa forse è la nostra battaglia principale. Io credo che la collaborazione tra queste diverse tipologie di soggetti possa funzionare, ma serve che entrambe muovano dei passi l’una verso l’altra per riuscire a comprendersi. Le aziende consolidate hanno bisogno dell’innovazione per riuscire a mantenere la propria posizione sul mercato, soprattutto oggi che la competizione è sempre più alta ed è a livello internazionale. Essendo già affermate sul mercato da anni ed avendo validato e strutturato molti processi, per loro il cambiamento è più difficile. Il cambiamento parte principalmente da una mentalità, bisogna rendersi conto che è necessario e che significa modificare ciò che hai sempre fatto e che ha funzionato finora. Bisogna quindi allentare la propria frizione interna e aprirsi all’esterno per poter collaborare con aziende che non hanno freni. Una startup non ha processi, ha una mentalità totalmente volta al cambiamento ed è molto più libera. Per poter entrare in contatto con una startup, un’azienda tradizionale deve essere pronta a delegare parte del potere decisionale per consentire di costruire qualcosa di nuovo. La parola “Innovazione” significa appunto “fare qualcosa di nuovo”, quindi è fondamentale poter fare qualcosa che non hai fatto prima.
Avete notato, nel momento in cui vi siete approcciati con un cliente più standardizzato, una difficoltà maggiore nel dialogare e proporre alcune soluzioni che magari potevano essere più interessanti?
Giulietta: Io credo che, un altro punto oltre quello della delega, sia quello di venirsi incontro o comunque di riuscire a creare delle zone franche dal punto di vista delle regole, perché le necessità sono diverse. Ad esempio Costa Crociere avrà una serie di procedure molto strutturate che devono funzionare per una nave di quella portata, mentre un piccolo motoscafo che va a fare le escursioni non può avere le stesse regole. Questo concetto, che sembra normale, è esattamente quello che un’azienda grande, che abbia voglia innovare, deve poi mettere nella pratica. Ossia permettere al piccolo motoscafo che traina l’innovazione di essere alleggerito di tutta una serie di regole e procedure.
Alessandro: Sulla stessa metafora aggiungo che, l’azienda dev’essere disposta a perdere il motoscafo, ovvero all’insuccesso dell’operazione. La somma degli insuccessi porta a conoscere meglio il mercato, ed è proprio questa apertura ai fallimenti che è faticosa da far comprendere alle aziende più standardizzate.
Giulietta: Infatti non ragioniamo mai in un’ottica di grandi investimenti, ma in tanti piccoli investimenti, meglio dieci progetti con un piccolo budget, che un solo progetto con un budget dieci volte maggiore. Questo permette di raccogliere molte più informazioni.
Alessandro ha detto che vi identificate maggiormente in una startup, perché una delle vostre mission è quello di sviluppare prodotti che possono avere un impatto, l’impatto è un concetto che viene utilizzato dagli startupper quando presentano i loro progetti, che cos’è l’impatto e qual è l’impatto che voi vorreste avere sul mondo o nella vita dei vostri clienti?
Alessandro: I clienti che serviamo hanno una mole di lavoro molto elevata e con i servizi che offriamo, vogliamo avere un impatto positivo che permetta loro di svincolarsi da un pensiero in più, quindi avere qualcuno che pensa ad offrire un servizio di qualità, risolvendo loro un problema.
Uno dei vostri pilastri è la gamification, cos’è e come si può applicare ad una città o ad un ecosistema per farlo funzionare ancora meglio?
Alessandro: La gamification è un mezzo per esaltare un servizio esistente che funziona, se alla base manca questo, non ha senso esaltare qualcosa che funziona male. Applicata al mondo della città abbiamo fatto già esperienza per un anno e la componente di engagement sui cittadini ha avuto ricadute positive su ogni servizio, si è dimostrata un modo per poter aumentare la fidelizzazione e l’attaccamento a un servizio che però, di base, funzionava già. Tutti i progetti di engagement li basiamo su un framework che si chiama Octalysis: uno dei concetti alla base è l’allineamento degli obiettivi di tutti gli utenti per rafforzare la loro interazione verso un unico scopo collettivo.
Giulietta: Sì, uno dei concetti che sottolineiamo spesso, anche a livello di mindset, è quello di concentrarci sull’allargare la torta piuttosto che avere una torta finita da dividersi. In questo modo puoi far diventare paradossalmente un tuo competitor un tuo collaboratore per riuscire a ottenere una torta più grande. Non è facilissimo, io la vedo un po’ come la sfida stessa dell’innovazione in cui bisogna accettare che parte dei propri progressi diventino, inevitabilmente, anche i progressi degli altri.
Volete lasciare un consiglio a un giovane che vuole intraprendere un percorso imprenditoriale?
Alessandro: Questa è una domanda che ho fatto anche a tante persone all’interno di Djungle: se avessi soldi infiniti e venissi da te chiedendoti “Quanti soldi vuoi e perché?” cosa diresti? Quasi tutti si concentrano sulla somma (1 milione, 10 milioni), però appena tu dici la cifra, hai limitato la capacità dei tuoi sogni, in realtà la domanda alla quale bisogna saper rispondere è “perché”. Se un ragazzo volesse fare l’imprenditore deve essere preparato su “cosa vuol costruire, cosa lo fa stare bene, cosa vuole sul pianeta che oggi non c’è”, i soldi non sono un problema, sono solo la benzina per poter arrivare a quell’obiettivo, ma lui deve essere preparato sull’obiettivo e non sulla ricerca dei soldi.
Giulietta: Consiglierei di vedere il film Big Fish. Secondo me, quel film trasmette il fatto che la realtà non è oggettiva, ma è quella che tu vuoi vedere. Questo è fondamentale perché fa anche capire che non è questione di dare la colpa a qualcosa di esterno e “cattivo” se le cose non vanno bene fin da subito, ma è questione di impegnarsi per diventare sempre più bravi a prendersi la responsabilità di ciò che ci circonda, sapendo che tutto dipende da noi.